Questo è cotto a legna, perchè mia madre e mia nonna sanno sempre come complicarsi la vita in virtù del perfezionismo, e hanno scovato un fornaio ad Arzano che gli fa il piacere di infornare i loro casatielli ogni anno a Pasqua.
Già ho chiarito che per me le ricorrenze religiose hanno ragione di esistere solo per il loro lato gastronomico, siccome certe delicatezze della cucina napoletana vengono prodotte solo ed esclusivamente durante la festività della cui tradizione fanno parte. La cucina napoletana, poi, raggiunge i suoi massimi livelli proprio nella produzione festiva. Quindi io NON festeggio la Pasqua, sia ben chiaro a chi voglia sfruttare questo post per dubitare del mio noto fervore antireligioso, ma mi vedrete sempre in prima linea, ai posti di combattimento, di fronte a una tavola imbandita per un pranzo pasquale, finchè ci sarà qualcuno che ne preparerà uno anche per me.
Il casatiello è una delle massime espressioni della napoletanità già nel nome. Casatiello suona di gran lunga più napoletano di pastiera, sfogliatella, struffoli ecc., ed è così napoletano che la sua tradizione svanisce varcati i confini della provincia. A Caserta, per esempio, per casatiello si intende una variante dolce, che in realtà poi sarebbe il casatiello arcaico napoletano, la cui tradizione è andata persa, o comunque spostata in provincia.
L’impasto è quello sacrosanto della pizza, a cui viene addizionata la ‘nzogna, lo strutto, in quantità dipendenti dalla capacità di sopportazione del fegato di chi lo mangerà. All’impasto vengono aggiunti uova sode intere e una selezione di salumi e formaggi tagliati a cubetti, tra i quali la più alta percentuale è rappresentata dai cicoli, altrove conosciuti come ciccioli o non so, per me napoletano sono i cicoli e basta.
Il casatiello si prepara solo a Pasqua ma in realtà non fa parte del menu del pranzo pasquale. La sua funzione è quella di prestarsi, per tutto il periodo della festività, per mangiucchiamenti, marenne, spuzzuliamenti. Ecco, il casatiello si spuzzulea, ci si fa uno spuntino, anche se – come dicevo a A. poco fa – una fetta di un centimetro e mezzo di spessore sazia abbastanza da sostituire un pranzo, ma uno di quei pranzi che poi a cena dici “stasera mi mantengo leggero”.
Il vero momento di protagonismo del casatiello è il pranzo del lunedì in albis, la pasquetta, dove costituisce il pezzo forte delle vettovaglie che ci si porta dietro per la tradizionale scampagnata, o pic nic che dir si voglia.
Annunci
8 commenti
Comments feed for this article
24 marzo 2008 a 11:38
mafalda
il migliore casatiello di napoli purtroppo lo fa mia suocera. Inutile dire che mi sento già i cicoli direttamente in circolo nelle arterie. ;-) Il casatiello è micidialmente buono.
24 marzo 2008 a 13:41
Watkin
Odddddio, mi hai messo una fame! Io sono toscano, ma sbavo sulla cucina napoletana…
(Ti sto mandando un po’ di gente che chiedeva delucidazioni sulle icone gay al tuo vecchio post in proposito… adesso voglio la percentuale! :P )
26 marzo 2008 a 22:46
Frà
Ne è avanzato un po’ da mandare via mail??
26 marzo 2008 a 23:12
totentanz
Frà, è stato debitamente fatto fuori.
Mafa’, “purtroppo” lo fa tua suocera? Non sei contenta? Pensa a me: il casatiello migliore di napoli PURTROPPO lo fa la suocera di una simpatica blogger napoletana che però non conosco dal vivo… chi ha più ragione di dire “purtroppo”? :-P
Watkin, thanks… una fetta di casatiello come pagamento? Se ne parla l’anno prossimo però.
17 agosto 2009 a 02:55
Francesco
Mi permetto, da studioso della lingua e delle tradizioni napoletane, di commentare alcune affermazioni di questo articolo.
In primo luogo, mi permetto di contestare la seguente serie di affermazioni: «Il casatiello è una delle massime espressioni della napoletanità già nel nome. Casatiello suona di gran lunga più napoletano di pastiera, sfogliatella, struffoli ecc., ed è così napoletano che la sua tradizione svanisce varcati i confini della provincia. A Caserta, per esempio, per casatiello si intende una variante dolce, che in realtà poi sarebbe il casatiello arcaico napoletano, la cui tradizione è andata persa, o comunque spostata in provincia».
Allora, per capire l’erroneità dele frasi di cui sopra va in primo luogo precisato che il napoletano è a tutti gli effetti una lingua, innanzitutto perché deriva direttamente dal latino (esattamente come il francese o langue d’oïl, il toscano oitaliano, lo spagnolo/castigliano, il catalano, le parlate reto-romanze, le parlate sarde, il rumeno etc. etc.), in secondo luogo perché è stata, anche se non in via esclusiva (ma accompagnata d altre lingue), lingua ufficiale del Regno di Napoli, poi Regno delle Due Sicilie, dagli Aragona sino alla conquista da parte di Garibaldi per conto dei Savoia (1860-`61).
Lingua ufficiale significa che era la lingua utilizzata dalla pubblica amministrazione (ancorché accanto ad altre lingue, soprattutto castigliano, catalano e francese, mentre il toscano/italiano è arrivato solo nella seconda metà dell’800 e non ha mai prevalso), insegnata nelle scuole, nonché utilizzata nelle udienze pubbliche dei Sovrani e sui giornali, nei processi e, soprattutto, nella produzione letteraria, gran parte della quale è giunta sino ai giorni nostri, tant’è che le canzoni napoletane sono considerate ambasciatrici dell’italianità nel mondo, quando in realtà, con l’italianità, in quanto concetto costruito a posteriori, non hanno niente a che fare.
Tanto premesso, è assolutamente ovvio che il napoletano abbia travalicato i confini di Napoli (sul concetto di provincia è meglio sorvolare poiché l’attuale articolazione provinciale dello Stato risale al 1859; prima nel Regno delle Due Sicilie c’erano i dipartimenti e non corrispondevano alle attuali province; l’unico ente territoriale che ha riferimenti storici relativamente precisi è il comune), dacché non era la lingua di Napoli, ma la lingua di un intero stato che, in Napoli, aveva il suo fulcro (la parte continentale delle Due Sicilie, ancorché avesse una struttura a urbanizzazione diffusa che d’altronde si riflette nell’attuale Italia meridionale, era polarizzata a Napoli, che sin dal Medioevo era uno dei maggiori centri di influenza culturale del mondo, se non il maggiore, tanto che Stendhal la considerava, insieme con Parigi, l’unica possibile capitale d’Europa, il che a quei tempi valeva a dire del mondo). Caserta, poi, era per costituzione un satellite di Napoli visto che fu praticamente creata dal nulla dai Borboni (Casertavecchia fu chiamata così successivamente; contrariamente a quel che si pensi non ha legami storici con Caserta, anche se poi fu conglobata nel medesimo comune), i quali edificarono la reggia in un territorio disabitato con lo scopo dichiarato di decongestionare la Capitale trasferendo in un luogo vicino parte della pubblica amministrazione centrale. La via Sannitica fu un rettifilo creato appositamente per consentire ai reali di raggiungere rapidamente Napoli dalla nuova residenza e viceversa, ed ebbe un notevole influsso sui casali che attraversava, determinando in particolare lo sviluppo di Caivano e di Arcopinto (località che poi confluì nel comune di Afragola ed è attualmente suddivisa con altri comuni).
Caserta era stata dunque uno dei primi tentativi di delocalizzazione della storia e, più che mai, uno dei primi tentativi di espansione di una città, una capitale, oltre sé stessa, tanto che già allora si sarebbe potuto parlare, con riferimento a Caserta, di area metropolitana di Napoli, senza considerare il fatto che Napoli veniva considerata una delle uniche tre metropoli al mondo visto che aveva raggiunto 200mila abitanti quando Milano ne aveva 5mila, o qualcosa del genere (e si pensi che quando Napoli raggiunse il milione Afragola era a 50mila, più di Milano e Torino!).
Tutto quanto sopra per evidenziare che la simmetria tra la lingua napoletana e la città di Napoli, o addirittura con una provincia, ente locale che non ha alcuna pretesa di coincidere con territori storico-geografici, è del tutto arbitraria. Si consideri, peraltro, che dal 1861 ad oggi gli àmbiti provinciali in Italia sono stati modificati almeno una decina di volte (da 80 o 81 province che c’erano nel 1861, oggi ce ne sono più di 100, alcune delle quali hanno il cosiddetto capoluogo congiunto; inoltre, i comuni che hanno cambiato provincia, a parte quelli che sono passati a province di nuove istituzioni, sono qualche centinaio, tra cui Aversa, che faceva parte della provincia di Napoli e ora è in capo alla provincia di Caserta, e Nola, che faceva parte della provincia di Terra di Lavoro e oggi fa parte della provincia di Napoli; infine, alcune province hanno cambiato capoluogo, per esempio il capoluogo della provincia di Terra di Lavoro era Capua, poi divenne Caserta, poi la provincia fu soppressa e istituita nuovamente con il nome di provincia di Caserta).
Oggi, secondo gli organismi internazionali e sovranazionali che riconoscono la lingua napoletana come tale (Onu, Unesco, Unione europea; il napoletano non è invece riconosciuto come lingua dalla Repubblica italiana per motivi politici che non rilevano in questa sede, anche se è riconosciuto nello statuto della Provincia di Napoli e in una legge della Regione Campania di ottobre 2008), la lingua napoletana ha una comunità di qualche milione di parlanti, dal basso Lazio (che, più propriamente, è alta Terra di Lavoro, dacché il Lazio storico inizia molto più in alto, addirittura più su di Colleferro, e quella zona prima del 1860 faceva parte del Regno delle Due Sicilie) a Villa San Giovanni, pur con dei distinguo dal momento che:
– nel cassinate-sorano, nel litorale domitio-flegreo, a Napoli, nell’afragolese, nell’aversano, nel casertano, nel nolano, nell’area vesuviana, nell’agro nocerino-sarnese, nella penisola sorrentina, nella costiera amalfitana, nella valle dell’Irno (compresa Salerno) e nella piana del Sele (cioè fino a Battipaglia, Capaccio, Paestum) si parla la lingua napoletana pura, ancorché con delle varianti fonetiche locali facilmente individuabili (un po’ come l’inglese britannico e l’inglese americano);
– in tutte le altre aree del Mezzogiorno continentale si parlano dei dialetti basati sulla lingua napoletana, ad eccezione del dialetto salentino e dei dialetti della Calabria ultra (Calabria greca), che sono dei dialetti di transizione tra la lingua napoletana e la lingua siciliana, e ad eccezione, naturalmente, di tutte le parlate alloglotte (albanesi, elleniche, grecaniche etc.). Senza considerare che anche le parlate lucane (Vallo di Diano, Basilicata, Cilento e golfo di Policastro) hanno dei sicuri influssi siculi.
L’affermazione inoltre è contraddittoria laddove prima dichiara che il significato del termine casatiello svanisce varcati i confini della provincia, tanto che a Caserta con questo termine si intende un prodotto dolce, per poi affermare che questo è il casatiello arcaico napoletano, la cui tradizione è andata persa o comunque si è sposata in provincia. Presumendo che per «in provincia» si intenda nel resto della provincia (la stessa provincia di cui fa parte anche Napoli, che in quanto capoluogo ne è la sede), se è appena stato detto che all’interno dei confini si intende quello salato e a Caserta quello dolce allora non ci troviamo, perché Caserta fa parte di un’altra provincia (di cui è capoluogo, e dunque sede).
Ebbbene, la questione è molto più complessa di quanto non si creda e ci sono diverse scuole di pensiero in merito.
L’unica cosa certa è che da Castellammare in giù, dunque in area vesuviana costiera, nonché nell’agro nocerino-sarnese e nella penisola sorrentina, per casatiello si intende solo ed esclusivamente quello dolce con i confettini sopra, dunque ecco venire cadere l’associazione napoletanità = provincia di Napoli, dal momento che i comuni di questa zona, ad eccezione di qualcuno che afferisce alla provincia di Salerno (Scafati, Angri, San Valentino Torio), fanno parte della provincia di Napoli (Castellammare di Stabia, Vico Equense, Sorrento, Sant’Agnello, Meta…). D’altro canto, Aversa è quasi attaccata a Napoli (ci passa solo Melìto in mezzo) e fa parte della provincia di Caserta; Sorrento dista forse una cinquantina di chilometri da Napoli e fa parte della provincia di Napoli. Marcianise, che fa sempre parte della provincia di Caserta, dista da Napoli circa 15 chilometri, Caserta appena una decina in più.
La maggior parte delle fonti afferma che la tradizione del casatiello dolce (che guarda caso si tende ad aromatizzare con bucce o essenze di agrumi) sia tipica della costa, mentre che la tradizione del casatiello salato sia tipica di Napoli e della zona interna (compresi i quartieri napoletani che una volta erano comuni a sé, come Secondigliano, che non hanno sbocchi sul mare). E pare che a Napoli il casatiello salato sia nato come semplice pane arricchito di strutto (sugna) e pepe, che poi proprio nell’entroterra sia stato arricchito di salumi e che, con uno scambio osmotico tra la Capitale e le zone interne della regione (e qui bisognerebbe citare proprio la Terra di Lavoro… A Caserta il casatiello salato si fa eccome), sia tornato a Napoli in questa variante.
Anni fa il prestigioso quotidiano “Il Mattino” pubblicò, per non scontentare nessuno, entrambe le ricette, e cominciò a correre in giro per Napoli la voce secondo cui il vero casatiello, quello originario, sarebbe dolce, mentre quello salato si chiamerebbe tòrtano: sciocchezza, e qui ci viene in aiuto l’etimologia, che ci dice che la parola “casatiello” deriva dal latino “caseus”, che vuol dire formaggio. Quindi, il casatiello in origine dolce non poteva essere, ma magari era arricchito di un buon formaggio a pasta dura da grattugia, di sicuro non il pecorino romano (che si chiama così per una lunga storia ma in realtà è tipicamente sardo, infatti ha il 90% dell’odierna produzione in Sardegna, e dunque non poteva essere diffuso a Napoli prima dell’annessione garibaldina, il che mi fa pensare più a un provolone del monaco ben stagionato o a un pecorino irpino o abruzzese), o magari, semplicemente, l’odore di strutto (che non è presente in tutte le ricette di casatiello dolce, mentre è caratteristico del casatiello salato) veniva scambiato per odore di formaggio e suggerì il nome.
Quanto alla distinzione tra casatiello e tòrtano… Per tòrtano si indica qualcosa che ha il buco in mezzo, tipo tarallo, e forse anche questo trae in inganno chi pensa che il vero casatiello sia quello dolce (che non ha il buco). In realtà che io sappia la differenza sta nel fatto che il tòrtano si cosparge di salumi e uova sode a pezzetti e si arrotola (poi se il rotolo si taglia a crudo le singole fette diventano i moderni panini napoletani), mentre il casatiello si impasta direttamente con i salumi all’interno e si cosparge di uova all’esterno, rigorosamente con tutto il guscio, tenute ferme da pezzetti di pasta a incrocio, che simboleggerebbero le spine della corona che fu posta sul capo di Cristo per la crocifissione. Siccome pare unanime l’attribuzione di questo significato al casatiello, ne deriva che in tutta evidenza esso nasce salato (quello dolce mica ha le uova sulla sommità! Al massimo la glassa con i confettini).
Chiedo perdono se sono stato un po’ pesante… come un casatiello, sarebbe il caso di dire.
27 agosto 2009 a 20:38
totentanz
Francesco, grazie per la tua graditissima precisazione. Questo, ovviamente, è un blog, non un sito di divulgazione accademica :-)
8 novembre 2009 a 18:00
Ezechiele
Salve,
sono un figlio di emigranti di origini sicule….e quando ho letto tutto cio’…mi chiedo se anche in Sicilia si parlava il napoletano, dato che secondo Voi era lingua ufficiale?
Scrivete delle assurdità
Regno di napoli?
Che vergogna…eravate siciliani….e non sapete ammeterlo….
Menomale che non siete più capitale…..cosa che nessuno voleva(a l’infuori di Voi napoletani hahaha)
Saluti signori tarantella
8 novembre 2009 a 21:22
totentanz
Ci mancava il campanilista siciliano. Ora siamo a posto.
Documentati prima di dire stronzate, grazie.